LA SOLITUDINE

030comp “….Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?“, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?“.Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia”. E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere.Gli altri dicevano: “Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!”. E Gesù, emesso un alto grido, spirò…”

Il passo (estratto da Matteo) ha una drammatica, stordente, potenza ed è a prima vista abbastanza inesplicabile se non si tiene conto del rapporto che Cristo ha con il Padre, perché è anche da esso che viene disegnata l’intera parabola della missione di Cristo nel mondo in termini di comportamento e di solitudine; in ogni caso si tratta di un passo molto complesso, almeno per me, che mi risuona da tempo.

Mi sembra che se si considera l’intera parabola di Cristo si possa osservare che il Suo rapporto con il Padre non è costante e anzi a ben guardare questo è progressivamente meno intenso fino a cessare del tutto verso l’epilogo; si passa dall’episodio di Gesù piccolino, quando viene “dimenticato” dai genitori, in cui Egli è come tutt’uno con il Padre, al silenzio assordante della fine; ma non è solo il rapporto con il Padre a diminuire di intensità, anche quello con i discepoli segue, seppure per per altri versi, un andamento simile.

Il risultato di questi rapporti è che Cristo non soltanto muore da solo ma questa dimensione (della solitudine) viene ad essere via via sempre più pervasiva nella Sua vicenda e nella Sua vita: man mano che si avvicina la fine la solitudine è crescente fino ad essere totale sulla Croce.

E questo deve avere un senso.

La missione di Gesù era quella di togliere i peccati da mondo nel senso di addossarsi su di sé ogni iniquità e dunque la sua parabola doveva seguire un andamento di crescente sofferenza fino a quella suprema e cioè quella di patire l’abbandono Divino in quanto incarnazione del peccato.

E’ facile collegare questa suprema sofferenza morale a quella fisica dovuta alla lotta contra la paura.

Dunque ha dovuto farsi carico di ogni peccato e questo è stato possibile soltanto diventandolo Lui stesso e quindi l’urlo è un grido di reale angoscia di abbandono: quale sofferenza più grande?

E non posso fare a meno di pensare, come padre, a quel che deve aver sofferto Suo Padre nel dover portare a compimento il sacrificio del Figlio: quale amore più grande per la Sua creatura uomo?

Una sofferenza infinita per un amore infinito.

Giovanni


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